• La Ballata del carcere di Reading


“La Ballata del Carcere di Reading”, composta da Oscar Wilde durante la sua detenzione, é un lamento poetico in prosa, esistenziale: racconta la storia dell'impiccagione di un giovane detenuto   colpevole di omicidio (“ha ucciso ciò che ama”) e delle reazioni dei suoi compagni di pena. Nel testo si susseguono due parti: quella che descrive la convivenza con un condannato a morte ed  evoca il rituale assurdo e feroce dell’esecuzione, e quella che contiene la meditazione sui mali del mondo e sulla redenzione.
“La Ballata del Carcere di Reading” è considerata una delle opere migliori di Oscar Wilde. 
 
Di seguito il testo  magistralmente tradotto  da Clemente Fusero per il vecchio editore I corvi dall'Oglio datato 1962.

                                     * * *




In Memoriam C.T.W. già soldato delle Guardie Reali a Cavallo Obiit nel carcere di S.M. a Reading,

Berkshire, il 7 luglio 1896.


Prima edizione: Londra, Smithers, 1898, in-8°  (in luogo del nome dell’autore, la sua sigla di carcerato: “C.3.3.”).


* * *
I


Più non portava la scarlatta tunica,
    Poiché il sangue ed il vino erano rossi,
E sangue e vino aveva sulle mani
    Allorché fu sorpreso, con la morta,
Quella povera morta che egli amava
    E uccise nel suo letto.

Camminava frammezzo agli imputati
    In un frusto e meschino abito grigio;
Aveva in capo un berretto da cricket
    E i suoi passi parevan lievi e gai:
Ma io non vidi uomo guardar mai
    Così intensamente la luce.

Uomo non vidi che guardasse mai
    Con sì intensa pupilla
La breve tenda azzurra
     Che i prigionieri chiamano cielo
E la nuvola errante che passava
    Con argentee vele.

   Camminavo con altre anime in pena
    In un altro cerchio,
Pensando se la colpa di quell’uomo
    Fosse grave o leggera,
Quando mi sussurrò dietro una voce:
    “Colui sarà impiccato”.

Ah, Cristo Iddio! Le mura del carcere
    Parvero barcollare bruscamente
E sul mio capo il cielo diventò
    Come un casco d’acciaio incandescente;
Anima in pena pur essendo io stesso,
    Non potei la mia pena sentir più.

Sol seppi quale incalzato pensiero
    Gli accelerasse il passo e perché mai
Egli guardasse il fulgore del giorno
    Con sì intensa pupilla:
Quell’uomo aveva ucciso ciò che amava,
E quindi doveva morire.

Eppure ognuno uccide ciò che ama,
    Lo intendano tutti:
Lo fanno alcuni con un bieco sguardo
    Ed altri con parole carezzevoli,
Il vile con un bacio,
    Il prode con la spada!

Alcuni uccidono il loro amore quando sono giovani,
    Altri quando sono vecchi;
Alcuni strozzano con le mani della Lussuria,
    Altri con le mani dell’Oro:
I migliori si servon d’una lama,
    Perché così i morti più presto diventano freddi.

Troppo poco si ama, o troppo a lungo;
    C’è chi vende l’amore e chi lo compra,
Chi commette il delitto lacrimando
    E chi senza un sospiro:
Poiché ogni uomo uccide ciò che ama,
     Ma non per questo ogni uomo muore.

Non muore d’una morte obbrobriosa
    In un giorno d’infamia tenebrosa,
Non ha un nodo scorsoio intorno al collo
    Ed un panno sul viso,
Né ritto sprofonda traverso l’assito
    In uno spazio vuoto.

Non siede vigilato giorno e notte
   Da uomini silenti
Che lo spiano quando tenta di piangere
   E quando tenta di pregare,
Che lo spiano per tema che sottragga
   Al carcere la sua preda.

Non vede, svegliandosi all’alba,
   Terrificanti figure affollare la sua cella;
Il tremante cappellano in veste bianca,
   Lo sceriffo cupo e severo,
Il governatore tutto in nero,
   Gialla faccia da giorno del Giudizio.

Non si leva con fretta miseranda
   Per indossare i panni del condannato,
Mentre un medico dalla bocca volgare lo guata
   E prende nota d’ogni suo sussulto,
Palpeggiando un orologio in cui i battiti lievi
   Son come orrendi colpi di martello.

Non conosce la sete disgustosa
   Ch’empie di sabbia le fauci,
Prima che il boia con i suoi guanti da giardiniere
   S’insinui dalla porta imbottita
E con tre cinghie di cuoio lo leghi
   Sì che le sue fauci non abbiano sete mai più.

Non reclina la testa ad ascoltare
   La lettura dell’Ufficio dei Morti
Né, mentre il terrore dell’anima
   L’assicura che non è morto ancora,
Sfiora la propria bara inoltrandosi
   Dentro lo spaventoso capannone.

Non fissa i vuoti spazi
   Traverso un piccolo tetto di vetro:
Non prega con labbra di creta
   Perché passi la sua agonia;
Né sente sulla guancia fremente
   Il bacio di Caifa.



II



Per sei settimane il nostro soldato passeggiò nel cortile,
    Col suo frusto e meschino abito grigio:
Aveva in capo il berretto da cricket,
    E i suoi passi parevan lievi e gai:
Ma io non vidi mai uomo guardar mai
    Così intensamente la luce.

Uomo non vidi che guardasse mai
    Con sì intensa pupilla
La breve tenda azzurra
    Che i prigionieri chiamano cielo
E la nuvola errante che trascina
    Il suo arruffato vello.

Non si torceva le mani
    Come i pazzi che ardiscono tentare
D’allevar la Speranza, figlia spuria,
    Nell’antro della nera Disperazione:
Solamente guardava in alto il sole
    E beveva l’aria del mattino.

Non torceva le mani, non piangeva,
    Né si divincolava o si struggeva:
Beveva l’aria quasi contenesse
    Un salutare balsamo:
Beveva a bocca spalancata il sole
    Come se fosse vino!

Ed io e tutte quelle anime in pena
    Nell’altro cerchio incedenti
Dimenticammo se la nostra colpa
    Fosse grave o leggera:
Con opaco stupore guardavamo
    L’uomo che doveva penzolar dalla forca.

Ed era strano vederlo passare
    Con andatura così lieve e gaia,
Ed era strano vederlo fissare
    Così intensamente la luce,
E strano era pensare
    Che un tale debito avesse da pagare.

La quercia e l’olmo han deliziose foglie
    Che a primavera si schiudono:
Ma orrido a vedersi è l’albero della forca,
    Con la radice morsa dalle vipere,
E, verde o secco, un uomo ha da morire
    Prima ch’esso dia frutto!

Il più alto posto è quel seggio di grazia
    Al quale tendon tutti gli ambiziosi:
Ma chi vorrebbe in cordone di canapa
    Troneggiare dall’alto d’un patibolo
E attraverso un collare d’assassino
    Lanciare in cielo l’ultimo suo sguardo?

Dolce è danzare al suono dei violini
    Quando l’amore e la vita sorridono;
Danzare a suon di flauti, a suon di liuti,
    E’ delicato e raro:
Ma non è dolce con agile piede
    Ballar sospesi in aria!

Così con occhi curiosi e congetture angosciate
    Di giorno in giorno osservandolo,
Ci chiedevamo se ognuno di noi
     Non finirebbe alla stessa maniera
Poichè nessuno può dire fino a qual rosso inferno
     Possa smarrirsi la sua cieca anima.

Infine il morto non passeggiò più
    Frammezzo gli imputati
Ed io seppi che adesso era là ritto
    Nel nero banco degli accusati,
E che mai più avrei visto la sua faccia
    In questo dolce mondo del Signore.

Come due navi perdute che passano nella tempesta
    Ci eravamo sfiorati,
Ma senza un cenno, senza una parola:
    Non avevamo parole da dire,
Poiché non nella notte santa ci eravamo incontrati,
    Ma nel giorno della vergogna.

Intorno a entrambi un muro di prigione.
    Due reietti eravamo:
Il mondo ci aveva rigettato dal suo cuore
     E Iddio dai suoi pensieri:
E la trappola di ferro che attende il peccato
     Nella sua insidia ci aveva ghermiti.


III


Dure le pietre nel Cortile degli Indebitati,
     Alte le mura stillanti:
Ed era là ch’egli prendeva aria
     Sotto il plumbeo cielo,
E due guardiani gli camminavano   ai fianchi
     Per tema che morisse.

O sedeva con quelli che spiavano
     Dì e notte la sua angoscia,
Che lo spiavano quando si alzava per piangere
     E quando si curvava per pregare,
Che lo spiavano affinché non sottraesse
     Al patibolo loro la sua preda.

Il governatore s’atteneva
     Agli articoli del Regolamento:
Il medico diceva che la morte
     Era nient’altro che un fatto scientifico:
Due volte al giorno veniva
     Il cappellano e lasciava un opuscolo.

E due volte al giorno egli fumava la pipa
     E beveva il suo quarto di birra:
In quell’anima intrepida non v’era
     Nascondiglio per la paura:
Spesso diceva d’essere contento
      D’aver vicine le mani del boia.  

                                     
Ma perché mai affermasse una cosa sì strana
     Nessun guardiano osava domandargli,
Poiché chi dalla sorte è condannato
     Al compito di guardia nelle carceri
Deve porsi alle labbra un catenaccio
     E fare del suo viso una maschera.

Altrimenti potrebbe commuoversi e cercare
     Di porgere conforto e consolare:
E che farebbe l’umana pietà
     Rinchiusa in una tana di assassini?
In un simile luogo dove la parola bontà
     L’anima d’un fratello potrebbe aiutare?

Con passo goffo e dondolante intorno al cortile
    La Parata dei Pazzi scandivamo!
Non ci importava: sapevamo d’essere
    La Brigata del Diavolo:
Teste rase e piedi di piombo
    Compongono un ‘allegra mascherata.

Sfilacciavamo corda incatramata
    Con le unghie corrose e sanguinanti;
Sfregavamo le porte e i pavimenti,
    Pulivamo le inferriate lucenti:
Ogni squadra lavava i tavolati
    Tra un fragore di secchi sbatacchiati.

Cucire i sacchi, spaccare le pietre,
    Il polveroso trapano girare,
Urtare le gamelle, urlare gli inni,
    Al mulino sudare:
Ma nel cuore d’ognuno
    Tranquillo se ne stava il terrore.

Così tranquillo, che ogni giornata
    Strisciava come un’onda greve d’alghe:
E noi dimenticammo l’aspra sorte
    Che attende il folle e il tristo,
Fino a quando, tornando dal lavoro,
    Passammo accanto ad una tomba aperta.

La bocca della gialla fossa spalancata in uno sbadiglio
    Attendeva d’ingoiare una cosa vivente:
Il fango stesso gridava per chiedere sangue
    Al sitibondo cortile d’asfalto:
E noi sapemmo che prima che l’alba imbiondisse
    Un prigioniero doveva penzolar dalla forca.

Rientrammo senza indugio, con l’anima assorta in pensieri
    Di morte, di terrore e di condanna:
Il boia, con il suo piccolo sacco,
    S’allontanò pesantemente nel buio:
E ognuno tremava infilandosi
    Nella propria tomba numerata.

Quella notte i deserti corridoi
    Si gremiron d’immagini paurose,
E su e giù per la città di ferro
    Andavano passi furtivi che non udivamo;
Dalle sbarre che occultano le stelle
    Bianche facce sembravano spiare.

Egli giaceva come chi disteso
    Sogna in una ridente prateria;
le guardie lo guardavano dormire,
    Né sapevan capire
Come fosse possibile godere un sonno sì dolce
    Con il boia alle costole.




Ma non v’è sonno per uomini che devono piangere
    E che in passato non piansero mai:
E così noi – i folli, i frodatori, i furfanti –
    Facemmo quella veglia interminabile:
E in ogni cervello, su mani dolorose strisciando,
    Il terrore  d’un altro penetrava.

Ahimè, è spaventevole
    Sentire la colpa di un altro!
Nell’anima la spada del Peccato
    Ci entrava fino all’elsa avvelenata,
E come gocce di piombo erano le lacrime che versavamo
    Per il sangue non sparso da noi.

Con le loro scarpe di feltro i guardiani
    Scivolavano davanti alle porte sprangate
E dalla spia vedevano, con occhio sgomento,
    Figure grigie sul pavimento,
E si domandavano perché si inginocchiassero a pregare
    Uomini che un tempo non pregavano mai.

Tutta la notte stemmo inginocchiati in preghiera,
    Dementi che piangevano un cadavere!
Le agitate piume della mezzanotte
    Eran pennacchi sopra un carro funebre,
E amaro vino offerto su una spugna
    Era il sapore del Rimorso.

Il gallo grigio cantò, cantò il gallo rosso,
    Ma il giorno mai non spuntava;
Contorte forme di terrore si rannicchiavano
    Negli angoli dove noi giacevamo:
E tutti gli spiriti maligni che vanno errando nella notte
    Dinanzi a noi pareva folleggiassero.

Scivolavano e passavano, scivolavano rapidi,
    Come viandanti attraverso la nebbia:
Beffavano la luna in un trescone
    Ricco di giri e intrecci delicati;
Con movenze solenni e orrenda grazia
    I fantasmi tenevano convegno.

Con smorfie e lazzi li vedemmo muoversi,
    Tenendo per mano, ombre sottili:
Gira, gira, in tumulto fantomatico
    Ballarono una sarabanda:
E i dannati grotteschi tracciavano arabeschi
    Come il vento fa sulla sabbia!

Con piroette di marionette
    Sulle punte dei piedi saltellavano:
Ma con i flauti della Paura l’orecchio assordavano,
    Nella raccapricciante mascherata,
E a gran voce cantavano, e lungamente cantavano,
Poiché cantavan per destare i morti.

Oh! – gridavano. – il mondo è lungo e largo,
    Ma gambe incatenate vanno zoppe!
E gettare una volta o due i dadi
    E’ un gioco da signori:
Ma non vince chi gioca col Peccato
    Nella segreta Casa dell’Infamia”.

Non eran certo aeree parvenze
    Quei buffoni che allegri sgambettavano:
Per uomini le cui vite erano tenute in catene
    E i cui piedi non potevano andare liberamente,
Ahi, piaghe di Cristo! Essi eran creature ben vive
    E spaventose a guardarsi.

In cerchio, in cerchio vorticosamente ballavano il valzer:
    Alcuni giravano, in coppie leziose;
Altri con passi affettati di tipi un po’ equivoci
    Si dileguavano su per le scale:
E con sottili sogghigni, con occhiatine adescanti,
    Ognuno ci assisteva nelle nostre preghiere.

Il vento del mattino cominciò a far udire i suoi gemiti,
    Ma ancora durava la notte;
Sul suo gigantesco telaio l’ordito delle tenebre scorse
    Fin che l’ultimo filo fu tessuto:
E nel pregare paura ci colse
    Della giustizia del sole.

Il vento gemebondo andò vagando
    Intorno alle piangenti mura del carcere,
finché, come una ruota d’acciaio che giri,
    Sentimmo serpeggiare i minuti:
O gemebondo vento, che cosa avevamo mai fatto
    Per meritarci un simile siniscalco?

Io vidi infine l’ombra delle sbarre
    Come un traliccio lavorare in piombo
Stamparsi sull’imbiancata parete
    Di fronte al letto fatto di tre assi,
E seppi che in qualche luogo del mondo
    Già rosseggiava la terribile alba di Dio.

Alle sei scopammo le nostre celle,
    Alle sette tutto era tranquillo:
Ma il fremito di un’ala possente
    Parve riempir la prigione,
Poiché il Signore della Morte dal gelido fiato
    Era entrato per uccidere.

Non passò avvolto di purpureo fasto,
    Né cavalcava un corsiero bianco al par di luna.
Tre metri di corda ed un asse scorrevole
    Son tutto ciò che occorre per la forca:
Così con la corda dell’obbrobrio venne l’Araldo
    Per compiere la sua opera segreta.

Eravamo come gente che in una palude
    Di sozza tenebra brancoli:
Non osammo alitare una preghiera
    O dare sfogo all’angoscia:
Qualcosa era morto in ognuno di noi,
    E ciò che era morto era la speranza.

La truce giustizia dell’uomo segue il suo corso
    E mai non devia:
Abbatte il debole, abbatte il forte
    Con il suo passo semina la morte:
Con tallone di ferro schiaccia il forte,
    Il mostruoso parricida!

Aspettavamo il battere delle otto
    Con la lingua ispessita dalla sete:
Poiché alle otto batte il destino
    Che d’un uomo fa un maledetto,
E il destino si serve d’un nodo scorsoio
    Tanto per il migliore che per il peggiore.

Non potevamo fare altro
    Che attendere il segno imminente:
Come cose di pietra in una valle sperduta
    Sedevamo immobili e muti;
ma il cuore d’ognuno dava battiti rapidi e cupi,
Come su un tamburo un demente.

Con un colpo improvviso l’orologio della prigione
    Percosse l’aria fremente,
E dal carcere intero eruppe un gemito
    Di disperazione impotente,
Simile al grido che odono le paludi sgomente
       Dalla tana di un lebbroso.

                                                
E come si vedono le più spaventevoli cose
    Nel cristallo d’un sogno,
Vedemmo la corda di canapa oleosa
    Appesa alla trave nera
E udimmo la preghiera
    Che il laccio del boia in un urlo strozzò.

Tutto il dolore che lo lacerò
    Fino a strappargli quell’amaro grido,
E i furiosi rimpianti, i sudori di sangue,
    Nessuno al pari di me li poté capire:
Poiché colui che vive più di una vita
    Più di una morte deve morire.



IV

Non si va in cappella il giorno
In cui impiccano un uomo:
Il cappellano ha troppo male al cuore,
O sul suo volto c’è troppo pallore,
O nei suoi occhi sono scritte cose
Che nessuno deve vedere.

Così ci tennero rinchiusi fin quasi a mezzogiorno,
Poi suonarono la campana,
E con le loro chiavi tintinnanti i guardiani
Aprirono le celle intente in ascolto,
E noi scendemmo pesantemente le scale di ferro,
sbucando ognuno dal suo isolato inferno.

Uscimmo nella dolce aria di Dio,
Ma non al modo consueto:
La faccia dell’uno sbiancata dalla paura,
La faccia dell’altro era grigia,
Ed io non vidi mai uomini tristi guardare
Così intensamente la luce.

Uomini tristi non vidi mai che guardassero
Con sì intensa pupilla
La breve tenda azzurra
Che noi reclusi chiamavamo cielo,
E la nuvola spensierata che in alto passava
In lieta libertà.

Ma v’erano alcuni tra noi
Che a testa bassa incedevano,
Ben sapendo che, se ognuno avesse ciò che si merita,
Sarebbe toccato a loro morire:
Egli aveva soltanto ucciso una cosa vivente
Essi ciò che era già morto.

Poiché chi pecca una seconda volta
Desta un’anima morta al patimento,
La trae dal macchiato sudario
E la fa sanguinare nuovamente,
Sanguinare la fa con grosse gocce di sangue,
E la fa sanguinare vanamente!

Come scimmie o pagliacci, in mostruoso costume
Di storte frecce stellato,
Silenziosamente andavamo muovendoci in cerchio,
Intorno al cortile di sdrucciolevole asfalto;
Silenziosamente andavamo muovendoci in cerchio
E nessuno diceva una parola.

Silenziosamente andavamo muovendoci in cerchio,
E nella svuotata mente d’ognuno
Il ricordo di cose terribili
Irrompeva come un terribile vento:
Dinanzi a ognuno incedeva l’Orrore
E dietro strisciava il Terrore. 


Tronfi i guardiani andavan su e giù,
Vigilando il loro armento di bruti;
Indossavano uniformi nuove fiammanti,
I loro panni domenicali,
Ma noi capimmo a quale lavoro avessero atteso,
Dalla calce che avevano sugli stivali.

Dove larga poc’anzi una tomba s’apriva,
Non c’era più tomba alcuna:
Solo una striscia di terra smossa e di sabbia
Lungo l’orrendo muro del carcere,
E un piccolo mucchio di calce ardente
Affinché l’uomo avesse un sudario.

Ed ha invero un sudario, il disgraziato,
Quale pochi possono pretendere:
Ben giù, sotto un cortile di prigione,
Ignudo per maggiore sua vergogna,
Giace, con le catene ad ambo i piedi,
Avviluppato in lenzuolo di fiamma!

E senza posa la calce ardente
Rode le carni e le ossa,
Rode le fragili ossa di notte,
Le teneri carne di giorno:
Rode ora le carni, ora le ossa,
Ma sempre rode il cuore.

Per tre lunghi anni non semineranno
Né pianteranno laggiù:
Per tre lunghi anni il sito maledetto
Sarà sterile e nudo,
E guarderà l’attonito cielo
Con uno sguardo privo di rimproveri.

Secondo loro, un cuore d’omicida
Corromperebbe ogni semplice seme che venisse deposto.
Non è vero! La buona terra di Dio
E’ più buona di quanto gli uomini non sappiano,
E la rosa rossa si schiuderebbe semplicemente più rossa,
La rosa bianca più bianca.

Dalla sua bocca una rosa vermiglia,
Dal suo cuore una bianca!
Perché chi può dire per quali vie misteriose
Cristo riveli la sua volontà,
Se l’arido bastone del romeo
Fiorì al cospetto del grande pontefice?

Ma né la lattea rosa, né la rossa
Possono fiorire in aria di prigione:
Ciottolo, coccio, selce,
Ecco che cosa ci danno:
Poiché si sa che i fiori talvolta guariscono
La disperazione dell’uomo.

Così né la rosa rossa come vino né la bianca
Si sfoglieranno mai petalo a petalo
Su quella striscia di terra e di sabbia
Lungo l’orrendo muro del carcere,
Per dire a coloro che camminano per il cortile
Che il Figliuolo di Dio morì per tutti.

Ma benché l’orrendo muro del carcere
Ancora da ogni parte lo rinserri,
E uno spirito non possa errare la notte
Se da catene è avvinto,
Né possa far altro che piangere
Se giace in così empio recinto.

E’ in pace il disgraziato,
E’ in pace, o quanto prima lo sarà:
Più non lo fa impazzire cosa alcuna,
Né il Terrore s’aggira in pieno giorno,
Poiché la buia terra dove giace
Non ha sole né luna.

L’hanno impiccato come s’impicca una bestia:
Non hanno nemmeno suonato
Un funebre rintocco che avrebbe potuto
Calmare la sua anima atterrita
Ma in fretta e furia via l’hanno portato
E nascosto in una buca.

L’han spogliato dell’abito di tela
E abbandonato alle mosche:
Han deriso la gola paonazza ed enfiata,
Gli occhi vitrei e sbarrati:
Con alte risa hanno ammucchiato il sudario
In cui riposa il loro condannato.

Il cappellano non s’inginocchierebbe a pregare
Presso la sua disonorata tomba,
Né la segnerebbe con quella croce benedetta
Che Cristo diede per i peccatori,
Perché l’uomo era uno di coloro
Che Cristo venne a salvare.

Ma non importa: egli è semplicemente giunto
Allo sbocco prefisso della vita:
E lacrime d’estranei riempiranno per lui
L’urna della Pietà da lungo infranta,
Perché lo piangeranno i reietti,
E i reietti piangono sempre.


V

 Io non so se le leggi abbian ragione,
O se le leggi abbian torto;
Tutto ciò che sappiamo, qui in prigione,
E’ che le mura sono forti
E che ogni giorno è simile ad un anno,
Un anno in cui i gironi sono lunghi.

Ma questo so: che ogni legge
Dagli uomini fatta per l’uomo,
Fin dalla prima volta che un uomo tolse la vita al fratello
Ed ebbe inizio un mondo di triste travaglio,
Disperde il grano e conserva la pula
Con un pessimo vaglio.

Anche questo io so – e sarebbe bene
Se tutti lo potessero sapere –
Che ogni prigione costruita dagli uomini
Con mattoni di infamia è costruita,
E munita di sbarre affinché Cristo non abbia a vedere
Come gli uomini mutilano i loro fratelli.

Con sbarre oscuran la graziosa luna
E accecano il buon sole:
E fanno bene a nascondere il loro inferno,
Perché vi avvengono cose
Che né il Figlio di Dio né il figlio dell’uomo
Dovrebbero vedere giammai.

Le più vili azioni come erbe velenose
Prosperano nell’aria della prigione;
Solo quanto di buono vi è nell’uomo
Vi si guasta e intristisce:
La pallida Angoscia sta al pesante portone
Ed è guardiana la Disperazione.

Ché fan patire la fame al bimbetto spaurito
Fin che dì e notte piange,
E frustano il debole, sferzano l’idiota,
Beffano il vecchio dai capelli grigi,
E alcuni impazziscono, e tutti diventan cattivi
E nessuno può dire una parola.

Ogni angusta cella nella quale abitiamo
E’ una sozza e buia latrina;
Il fetido fiato della Morte vivente
Soffoca ogni finestra a inferriata;
E tutto, fuorché il Desiderio, si sbriciola in polvere
Nella macchina dell’Umanità.

L’acqua salmastra che da noi si beve
Fluisce densa di schifosa melma,
L’amaro pane che ci pesano con le loro bilance
E’ pieno di gesso e di calce,
e il Sonno non si stende, ma cammina
Sbarrando gli occhi e lancia grida al tempo.

Ma sebbene la magra Fame e la livida Sete
Come l’aspide e la vipera si diano battaglia,
Poco curiamo del vitto del carcere:
Ciò che davvero ci agghiaccia ed uccide
E’ che ogni pietra alzata nel corso del giorno
Diventa poi di notte il nostro cuore.

Sempre con la mezzanotte nel cuore
E nella cella il crepuscolo,
Giriamo la manovella, sfilacciamo la corda,
Ognuno nel suo inferno separato,
E assai più spaventevole è il silenzio
Che il suono d’una bronzea campana.

E mai non si avvicina voce umana
Per dire una parola di bontà:
L’occhi che guarda traverso la porta
E’ duro e senza pietà:
E da tutti dimenticati andiamo sempre più imputridendo,
Nell’anima e nel corpo rovinati.

Così arrugginiamo la ferrea catena della Vita,
Degradati e soli:
Alcuni maledicono, altri piangono,
Altri non danno lamenti:
Ma le eterni leggi di Dio sono clementi
E spezzano il cuore di pietra.

Ed ogni cuore umano che si spezza
In cella od in cortile di prigione
E’ come il vaso infranto che largì
Il suo tesoro al Signore
E nell’immonda casa del lebbroso
Sparse un olezzo di nardo prezioso.

Ah, beati coloro il cui cuore può infrangersi
E conquistare la pace del perdono!
Come altrimenti potrebbe l’uomo raddrizzare le sue vie
E l’anima mondare dal peccato?
Come, se non per il varco d’un cuore spezzato,
Cristo Signore in lui potrebbe entrare?

E l’uomo dalla gola paonazza ed enfiata,
Dai vitrei occhi sbarrati,
Le mani sante attende che portarono
Il ladro in paradiso:
Poiché il Signore non sprezza
Un cuore infranto e contrito.

L’uomo in rosso che interpreta la Legge
Gli concesse tre settimane di vita,
Tre brevi settimane per guarire
L’anima dal suo intimo conflitto
E per lavare da ogni macchia di sangue
La mano che aveva impugnato il coltello.

E con lacrime di sangue egli deterse la mano,
La mano che aveva stretto la lama d’acciaio:
Poiché soltanto il sangue può il sangue lavare,
E soltanto le lacrime sanare:
E la rossa macchia che già fu di Caino
Divenne il nìveo sigillo di Cristo.


VI

Nel carcere di Reading presso la città
V’è una fossa d’infamia,
E là giace uno sventurato
Roso da denti di fiamma:
Il bruciante sudario è avviluppato.

E sopra la sua tomba non v’è nome.
Là, fin che Cristo chiami fuori i morti,
In silenzio lasciatelo dormire:
Inutile sprecare sciocche lacrime
O trarre vani sospiri:
Quell’uomo aveva ucciso ciò che amava,
E quindi doveva morire.

Ed ogni uomo uccide ciò che ama,
Lo intendano tutti:
Lo fanno alcuni con bieco sguardo
Ed altri con parole carezzevoli,
Il vile con un bacio,
il prode con la spada!



 C.3.3.

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